sabato 22 gennaio 2011

Claudio Parmiggiani. naufragio con spettatore. 22 gennaio 2011


Dal fondo di un naufragio
di Sylvain Amic

A Parma c’erano una chiesa dimenticata e un palazzo abbandonato. La prima era piena di polvere, il secondo pieno di vuoto. Luoghi che attendevano qualcuno per cui polvere e vuoto valgono più dell’oro. Ed è entrato Parmiggiani: chi altri? Ciascuno dei suoi gesti è stato come un calcio dato nel fianco di un animale per svegliarlo. In ogni stanza ha appostato delle sentinelle gravi e melanconiche. E poi ha aperto le porte. Il visitatore che varca la soglia si avventura in un mondo dove il silenzio urla, dove la pietra brucia. Il campo di battaglia di una guerra cominciata esattamente cinquant’anni fa. Claudio Parmiggiani è nato a Luzzara nel 1943. Chi volesse sapere da dove viene non deve fare altro che sfogliare il libro di Paul Strand, Un paese, in cui dieci anni dopo il grande fotografo ritrae questo piccolo paese emiliano. Una raccolta di immagini che mostrano un mondo di terra e di paglia, di acciaio e legno, un mondo di lavoro e di sangue, anche. Un mondo avaro di parole, fatto di lentezza e di dignità. Un paese scomparso. Noi viviamo da allora nel tempo del neon e della televisione. Un tempo che vuole abolire il tempo. Ciò che la mano sapeva, l’abbiamo perduto. Ciò che l’occhio sentiva, non lo percepiamo più. C’è tanto rumore, nel nostro tempo, che non ci voltiamo più a guardare ciò che è crollato. Tanto le promesse di felicità che le tragedie, grandi e piccole, scorrono via come pioggia. Parmiggiani ha visto tutto questo. Ha visto corrompersi le cose più sacre, la parola diventare moneta, l’arte diventare pubblicità. Il suo esilio volontario dalla scena artistica italiana e il suo ostinato silenzio da quarant’anni equivalgono a una presa di posizione unica e radicale. In un contesto in cui la confusione dei valori è la regola, la sua assenza è diventata una forza morale e il suo silenzio un’autorità critica. Lontano da ciò che ha fatto “l’attualità” dell’arte, lontano dai gruppi, dai movimenti che da decenni hanno monopolizzato l’attenzione, egli ha sviluppato un linguaggio al tempo stesso intimamente personale e universale. All’inizio la sua opera ha voluto trasformare il mondo, immergersi nei suoi segreti più ermetici; ma poi la lotta si è fatta più dura, più nera, come se si avvicinasse la battaglia finale. Il colore ha lasciato posto all’ombra, il pennello al fuoco, il pigmento alla cenere. Il silenzio si è fatto più denso. Così qui è il silenzio Il silenzio di Claudio Parmiggiani nel tempo è divenuto un materiale, uno spazio che egli modella. Riunisce le sue opere fra loro, le porta al mondo e le rende intelligibili. È un emblema, un’etica, che nasce da quello che in lui vi è di più profondo. Risaliamo indietro nel tempo. Nella primavera del 1964 Parmiggiani incontra il poeta Ezra Pound nel suo ultimo esilio, a Venezia: “Non voleva più parlare, che è ben diverso dal non scrivere più o dal non dipingere più. Non parlare più, come segno di una visione ulteriore della poesia. Guardava, ascoltava senza dire mai una sola parola”1. Proseguendo ancora un po’ più in là. Un altro silenzio incrocia la strada del giovane artista, quello dello studio di Giorgio Morandi a Bologna, in via Fondazza, a cui Parmiggiani fa visita nei pomeriggi d’estate: “Finestre appena socchiuse per lasciar fuori il caldo e il mondo, niente altro che il tic-tac del pendolo; tutto era immobile”2. “Non ci si è soffermati abbastanza sull’importanza di questo luogo assoluto, simile alla cella di un san Girolamo, una piccola arca di Noè con dentro le cose più filosofiche: gli oggetti umili e silenziosi dello sguardo quotidiano”3. Continuiamo la risalita nel tempo, verso la fonte, la casa dell’infanzia, isolata nella campagna del Po. “I miei genitori erano braccianti agricoli. […] Mio nonno era un uomo che sapeva fare di tutto con le sue mani. Sua madre, ebrea, era di origine tedesca e a causa della lingua non si erano mai veramente parlati”4. Si aggiunga l’immagine delle barche “lente e nere”, sospinte da uomini “come ombre” e si capirà l’origine, al tempo stesso segreta e meditativa, di questo silenzio. Un disegno del 1971 mostra le pareti di una stanza vuota. Claudio Parmiggiani vi ha martellato questa parola come un’ingiunzione: Silenzio ai muri, Silenzio al soffitto, Silenzio, Silenzio. Nel 1973, sulla pagina “Cultura e attualità” della Voce Repubblicana, l’organo ufficiale del Partito Repubblicano Italiano, si trovano alla rinfusa Warhol, Tiziano, la rivoluzione culturale, l’energia geotermica, una sonda russa arrivata sulla Luna. Da tutto questo tumulto, stampato su nove colonne, Claudio Parmiggiani estrae, come con un bisturi, un’unica parola, che depone al centro di una pagina bianca: “Silenzio”. Il silenzio è ormai un’arma, un’insurrezione. Quando si chiede all’artista che cosa possa ancora significare, al giorno d’oggi, il termine “sovversione”, lui risponde: “Silenzio, per esempio. Oggi ‘silenzio’ è una parola sovversiva, ed è sovversiva perché è uno spazio meditativo”5. Il silenzio di Parmiggiani è violenza, come nelle Delocazioni fatte di fumo o nei labirinti di vetri rotti. L’aria che circonda queste opere vibra ancora del fragore che ha sovrinteso alla loro creazione, in quel silenzio che è qui giusto definire assordante. Ma, come in Rilke, tale silenzio è ancor più temibile del rumore che lo ha preceduto: “Questi sono i rumori. Ma c’è, qui, qualcosa di più pauroso: il silenzio. Credo che durante i grandi incendi sopravvenga a volte un momento di tensione estrema, i getti d’acqua ricadono, i pompieri non si arrampicano più, nessuno si muove. Senza rumore un cornicione nero si protende in cima, e un muro alto, dietro cui il fuoco divampa, si inclina, senza rumore. Ognuno attende immobile, le spalle alzate, il viso contratto sugli occhi, il fragore tremendo. Così qui è il silenzio”6. Agli aspiranti pittori Henri Matisse diceva: “Si dovrebbe cominciare tagliandovi la lingua, perché a partire da oggi dovrete esprimervi unicamente con mezzi plastici”7. Come quello di Matisse, il silenzio di Claudio Parmiggiani non è un’assenza, ma un’esigenza morale. è all’opposto di un altro silenzio, concertato questo, e da molto tempo posato sulla sua opera come un coperchio. Nel 1981, una manifestazione internazionale dal titolo “Identité italienne” voleva tracciare un panorama dell’arte in Italia a partire dal 1959. Il suo organizzatore non ritenne allora di includervi Claudio Parmiggiani, e nemmeno di citare il suo nome nel saggio di introduzione al catalogo8. Scelte queste che appaiono oggi come errori grossolani, e che gettano discredito sulla dichiarata ambizione di fare la storia. Perché il 1959? Non c’è una valida motivazione. A meno che quell’anno, come ricorda il catalogo, non sia stato scelto perché anno di fondazione di Finarte, “istituto finanziario con lo scopo di applicare nel campo dell’arte operazioni bancarie atte a sviluppare attività commerciali e finanziarie”9. Un avvenimento di buon auspicio per una generazione assai dinamica sul mercato dell’arte, anch’essa celebrata dall’esposizione. Misura per misura, silenzio per silenzio, Claudio Parmiggiani non si è mai espresso sull’argomento. Tuttavia, nel 2003, egli torna su quegli anni di ostracismo in un testo indirizzato a un amico artista: “Aver rifiutato di sedersi ad una mensa ha significato nel tempo e nell’indifferenza il quotidiano occultamento di una storia, non tanto la mia, la nostra: la cancellazione delle impronte che, giorno dopo giorno, abbiamo lasciato a piedi nudi su un sentiero. Ha significato pagare. L’abbiamo fatto in silenzio, ma a voce alta. Ti scrivo questo dopo un urlo lungo quarant’anni e per una verità, ora basta”10. Disjecti membra Poetæ, le membra sparse del poeta In questo contesto, l’opera di Claudio Parmiggiani si è costruita come una resistenza. Una parola con cui è cresciuto, nella casa rossa sulle rive del Po: “Quando la guardavo da lontano, quella casa rossa mi sembrava la più speciale di tutte; era la più speciale, ma anche la più pericolosa. Era una casa politica, una specie di direzione strategica. […] La casa era considerata dai contadini un luogo di sovversione, […] lì si era appena formata la prima cooperativa rossa operaia del dopoguerra in Italia”11. Come nella clandestinità, il suo lavoro è fiorito nei luoghi più inattesi, lontano dalle piazzeforti dove si scriveva una certa storia dell’arte. Un faro perduto nel bel mezzo della terra d’Islanda. La traccia di mani d’oro sul Monte d’Oro. Un pianeta sotterrato nel chiostro del Musée des Beaux-Arts di Lione. Un bosco che guarda e ascolta a Strasburgo. Un uovo di marmo in un anfratto roccioso a Carrara. Una testa posata su un pozzo a Rennes. Una fontana dalla quale il vino scorre una volta l’anno a Aubigné-sur-Layon. Parmiggiani ha cosparso la terra di segni segreti che, come semafori, trasmettono il loro messaggio, gradatamente, da uomo a uomo. Un sistema arcaico e sicuro, che poggia sulla fiducia e la vigilanza. Come per deiscenza, le opere, i semi, si vedono proiettate lontano dall’albero che le ha generate. Ma il vero artista si preoccupa del loro destino, come un padre dei suoi figli. Ci sono quelli che sa felici, ben sistemati, ci sono quelli per cui si soffre, ci sono quelli di cui arrivano notizie di tanto in tanto, quelli la cui assenza è crudele, quelli che a volte bisogna salvare. Per Caspar David Friedrich, Parmiggiani ha cercato per cinque anni nuovi porti, Darmstadt, Madrid, Barcellona, Glasgow, Praga, Marsiglia, fino a quando la grande barca nera e le sue tele hanno riguadagnato un luogo sicuro e amico, Reggio Emilia. Angelo Parmiggiani ha dovuto portarlo via tra le braccia all’indomani dell’inaugurazione della Biennale di Venezia del 1986, strappandolo a un contesto che riteneva inaccettabile. Per lo Zoo geometrico di Nantes, era troppo tardi: il museo l’aveva distrutto. Questa diaspora non è che il frutto della necessità, o di un processo naturale. La sua forma esplosa è anche il riflesso di un pensiero che sfida il tempo e lo spazio. Così Parmiggiani ha composto Una scultura, un’opera dispersa ai quattro venti, costruita in quattro luoghi in un periodo di sedici anni, dal 1975 al 1991. Clavis è a nord, vicino a Brescia, Pietra a sud, su un’isola del Nilo, Torre è a ovest, vicino ad Albi, Casa sotto la luna è a est, a Sobotka, nella Repubblica Ceca. “Avevo pensato”, scrive l’artista, “di disseminarne e nasconderne le quattro parti, Nord, Est, Sud, Ovest in altrettante parti del mondo, disperderne le membra, disgregare anziché aggregare, compiere all’inverso quello che chiamiamo ‘processo creativo’, trasformare non un’idea in oggetto, ma un oggetto in idea, e seppellirla nella lontananza”12. Quattro paesi, quattro campagne, quattro lingue, ma una sola scultura, un solo materiale universale, il mattone. Un’opera fatta con la terra e le mani, come gli uomini hanno sempre costruito la propria casa. Dispersa, Una scultura è più forte. È come uno stratagemma, un rebus i cui quattro enigmi proteggono l’ingresso di un santuario sconosciuto. Una scultura, di cui lo spettatore non vede mai che un frammento, appare come una metafora del lavoro stesso di Claudio Parmiggiani. Utilizzato nel suo valore di sineddoche, il frammento vi svolge da sempre un ruolo fondamentale. Frammenti di calchi in gesso, teste, mani, seni, busti, ci dicono l’uomo, la donna, percepiti attraverso la loro forma senza tempo, quella che ci ha tramandato l’antichità. Oggetti trovati, scarpe, cappelli, casse di orologio, barche, custodie di violini, sono come l’involucro di un corpo assente e richiamano l’angoscia fondamentale della perdita e della morte. Nelle opere di Parmiggiani il frammento non è una citazione, come si è voluto credere. Così come non è un commento. Interpretare questo lavoro come un’espressione specificamente italiana, come il prodotto di molti secoli di cultura umanistica, è al tempo stesso giusto e sbagliato. Perché, se l’artista è colto, la sua opera non chiama in causa né riferimenti, né codici, né simboli; essa riunisce materiali che sono nostri, e che noi d’un colpo scopriamo altri, sorpresi dalla loro nuova eloquenza. E se talvolta vi risuona l’eco degli artisti o dei poeti del passato, è perché anche loro hanno guardato il mondo e nel loro tempo hanno lottato per trarne la stessa bellezza e la stessa verità. L’opera di Parmiggiani non ha mai smesso di mettere radici sempre più profonde nella cultura, nella terra e nel cielo d’Italia. Ma si tratta di un’Italia presa come metafora dell’umanità intera, e non di una tradizione dalle virtù paralizzanti. Parmiggiani si è sempre posto al di là di questa eredità: “Nessun antagonismo”, scrive, “esigere tutto e unicamente da se stessi. Non superare gli altri, ma se stessi. Ignorare i propri contemporanei così come quelli che ci hanno preceduto. Sentirsi soli e assoluti”13. Sono stati molti coloro che hanno ripreso gli elementi di questo linguaggio plastico. Nell’Italia contemporanea sono comparsi qua e là fumi fuligginosi, teste di antichi, vetri infranti, campane di bronzo, come se si trattasse di un patrimonio comune che chiunque avesse diritto a usare. Ma così come i monumenti antichi hanno fornito le pietre per oscure stamberghe, allo stesso modo si è attinta dal lavoro di Parmiggiani la materia per opere mute. Davanti a questi oggetti, di cui si riconosce la forma senza più comprenderne il senso, si resta interdetti, in attesa di una rivelazione che non arriva. Per anni la voce di Parmiggiani si è così trovata circondata da un brusio mistificatorio. Ma come scrive Orazio, Invano a questi versi leverai l’armonia, i loro brandelli conserveranno l’impronta del genio14. Perché il tempo è passato su queste opere che hanno spadroneggiato nella nostra epoca. Oggi, al tempo delle retrospettive, è il disinganno a prevalere. Un sentimento di vacuità, come se il motore che le animava si fosse messo a girare a vuoto, senza produrre niente che non sia una ripetizione, in un’assurda tautologia che l’apparato teorico non riesce più a dissimulare. La posizione stessa di questi artisti è diventata oggi incomprensibile. La loro voce non va al di là di loro stessi e non comunica al mondo nient’altro che il comfort in cui si sono sistemati. All’opposto, l’opera di Claudio Parmiggiani si dispiega nel tempo come un progetto globale la cui coerenza, unicità e importanza non fanno che aumentare. Questi ultimi vent’anni hanno visto al tempo stesso la comparsa di motivi completamente nuovi (l’àncora, la campana) e la riattivazione di antiche opere (Delocazione, labirinto di vetro, pigmenti…). Parmiggiani lavora ormai con ciò che è meno concreto: la polvere, il vuoto, il fuoco, il fumo. In questo territorio fatto di respiri, in cui nessuno si è avventurato prima di lui, costruisce una sorta di roccaforte inespugnabile, perché impalpabile. Il rinnovamento a cui assistiamo va a vantaggio dell’insieme dell’opera: il presente illumina il passato, svela i legami sotterranei che mettono in comunicazione lavori che sembravano estranei gli uni agli altri. Così l’opera diventa totale, come se i frammenti sparsi di un corpo smembrato venissero finalmente riuniti. In questo stesso periodo i suoi interventi pubblici si sono fatti più rari. Ma colpiscono sempre più forte, come colpi ripetuti su una porta chiusa. È un teatro di paura e di drammi in cui, man mano che la violenza della nostra epoca va crescendo, si fa strada un sentimento tragico dell’esistenza. La deambulazione in questi spazi non è neutra. Nessun artificio qui a distrarre l’occhio, ma un lago nero come uno specchio in cui il mondo guarda se stesso sprofondare. Su quest’acqua piena dell’inchiostro dei libri, Parmiggiani, come “un bambino malinconico inginocchiato lascia andare/ Un battello leggero come una farfalla a maggio”. Le navi, le barche che passano nelle sue opere sono come delle arche. Portano ciò che l’umanità ha di più prezioso: pianeti, farina, tele dipinte, animali meravigliosi. Portano i sogni dell’uomo, per salvarli dal naufragio. Il sogno, il mio studio15 La potenza dell’immagine e la funzione del sogno nella sua elaborazione sono due aspetti fondamentali dell’opera di Claudio Parmiggiani e della sua comunicazione con il mondo. Se l’opera è eloquente è perché l’artista ha creato un’immagine affascinante, che nasce da una visione. Questa visione che si è imposta all’artista può essere trasmessa allo spettatore, perché agisce sulle stesse forze: i sogni sono esperienze condivise da tutti. Parmiggiani ha talvolta descritto i propri in interviste, oppure in poesie come In sogno, pubblicato in Stella, Sangue, Spirito. I sogni di Parmiggiani non sono i nostri; ognuno rielabora nel sonno le proprie ossessioni personali, situazioni, paure, desideri. Nei suoi, si incontrano uomini che tirano reti in cui sono rimaste impigliate rondini e numeri, statue incandescenti, scale di pane che salgono verso il cielo, balene che soffiano getti di stelle. È molto improbabile che si sogni di versare una scodella di sangue su un prato verde, di spingere barche che trasportano vecchi arcobaleni; in compenso, la meraviglia – o lo sgomento – che proviamo immergendoci in un mondo completamente trasformato è universale. I sogni di Parmiggiani sono matrici per opere che verranno realizzate prima o poi, oppure mai. Comunque sia, esistono già nel suo studio: “Il migliore degli studi”, dice lui, “è la mente”16. È in questo luogo, in cui l’opera è presente nella sua totalità, che nascono le immagini, come le stelle nell’universo. Quando gli si chiede come nasca un’opera, l’artista risponde: “So solo che un mattino ci si sveglia con delle immagini dentro, senza domandarsi da dove vengano, né come, né perché… senza chiedersene la ragione… come se la ragione fosse questa estrema concentrazione di irrazionale… Fluttuano, si disperdono, ritornano nel corso dei giorni o degli anni a venire. E ritornano perché vogliono tornare, perché devono tornare, perché chiedono con insistenza di poter esistere… che venga data loro una forma fisica”17. Questa fabbrica di immagini è anche un teatro delle ombre, una presenza costante nel lavoro di Parmiggiani, a partire dall’Autoritratto come ombra fino ai disegni dove uomini lottano con la propria ombra, frustano la propria ombra, non sono più altro che ombre. “All’ombra è legato il senso della nascita e della morte”, scrive; “essa è il luogo occulto in cui immagini e idee prendono forma”18. Disegnare l’ombra degli oggetti ha fatto parte per secoli dell’apprendistato degli artisti. La generazione di Parmiggiani è stata fra le ultime a ricevere questo insegnamento. Ma l’arte in questi stessi secoli si è accontentata di porre delle ombre su una superficie piana per dare l’illusione dello spazio. Dopo il 1970 e la prima Delocazione, Parmiggiani pone delle ombre su spazi molto reali, su architetture del nostro mondo. Queste ombre non sono astratte, ma sempre legate a una presenza umana il cui ricordo resta palpabile, come una forma calcata nella sabbia. Libri, statue, orologi, scale, bottiglie sono oggetti che l’uomo ha lavorato e maneggiato e la cui ombra è rimasta per sempre sui muri. A volte, attirata dalla luce del fuoco, una farfalla si è fatta catturare; la sua impronta ci indica che non è solo l’ombra ma l’anima delle cose, che in questo processo di metempsicosi, è migrata sui muri coperti di fuliggine. Terra d’ombra Così le ombre di Parmiggiani si separano dall’oggetto a cui erano legate e quando esso scompare restano. Così è possibile che il sogno non sia che una chimera, e che sia permesso di misurarne sul nostro suolo i percorsi labirintici. Col suo faro, le sue mani d’oro, ci sembrava già che Parmiggiani avesse viaggiato negli abissi per riemergere carico di luce. Nelle Delocazioni ritorna carico di ombre, mentre Orfeo, Dante e Virgilio sono tornati dagli inferi da soli. Mi piace immaginare Parmiggiani come un pastore che spinge davanti a sé un gregge di ombre. Tra queste Yeats, Nicolas Flamel, Majakovskij, e molti altri. In fondo so che è davvero così. Queste voci emerse dal passato ci sussurrano, come Parmiggiani con Infinito, che la ricerca dell’infinito non porta che al qui e ora: in fondo allo spazio, attraverso il libro di astronomia bruciato, è solo il muro, a cui l’opera è appesa, ciò che vediamo. Ed è questo muro, contro cui sbattiamo, a cui tutto ci riporta, che l’artista deve distruggere. Deve stringere il presente, costringerlo a consegnare ciò a cui non avremmo mai dovuto rinunciare, la bellezza, il cielo, la vita. “Credo di poter comprendere una sola cosa del mio lavoro”, scrive, “la determinazione con cui vuole strappare il sogno, o un sogno, dal suo cielo per imporlo alla realtà. Mescolare il sogno alla terra, il sogno al sangue, materialità e immaterialità. Immergere non la vita nel sogno, ma il sogno nella vita”19. Tutto lo sforzo di Parmiggiani è in questo: sentire il dolore, conoscere la sofferenza, conoscere il peso delle cose, ma sempre vedere ciò che il mondo può, e mostrare ciò che nasconde. Come esprimere in maniera più efficace che con Pane, trecentosessantacinque pani di ferro pesanti come palle di cannone, cos’è la fame e come conquistare il pane quotidiano? Come esprimere meglio che con Angelo, due scarpe immerse nel fango ma il cui occupante ha preso il volo, che sì, forse siamo fatti di fango, ma la nostra testa tocca le stelle? Come dire meglio che con Cenere, cento contenitori di cenere allineati, che di noi non resterà niente, ma che da quel niente nasce tutta la vita? È la condizione umana, in fondo, l’unico soggetto di Claudio Parmiggiani. Ogni volta che il posto concesso all’uomo si restringe, è lui a lottare per ritagliarvi lo spazio del sogno. È lui l’àncora conficcata nel muro del palazzo di Parma. È lui il sangue nella croce-reliquiario; è lui questo “suicidato della società”, questa campana appesa per il suo batacchio, torturata, resa muta. Parmiggiani non ha rinunciato. Dal fondo di questo naufragio, dove ci troviamo, lancia segnali. Costruisce fari. Il cielo è tutto un presagio e il mondo è tutto un prodigio. Calderón


http://www.radioemiliaromagna.it/cultura/mostre/parma_naufragio_spettatore.aspx

1 commento:

  1. Questo articolo è a dir poco stupendo. Solo una domanda: i numeri riportati vicino alle citazioni, sono note in calce? come posso vedere le fonti di tali citazioni?
    garzie

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