sabato 29 gennaio 2011

Parma. 29 January 2011. Claudio Parmiggiani, Naufragio con spettatore 2
















Parmiggiani realized a similar installation in France
[Église du Couvent, Morsiglia] L'opera monumentale progettata da Claudio Parmiggiani per il FRAC Corse, è stata pensata per gli spazi dell'”église du couvent” di Morsiglia, in Corsica. Una barca imponente, recuperata in Sardegna, è stata sottratta al mare e ricollocata all'interno della Chiesa: uno staff di operai, carpentieri, artisti ed artigiani, ha lavorato per trasportarla fin lì e per allestire poi il cantiere destinato al taglio, operazione necessaria ad introdurre l'imbarcazione nello spazio. Il titolo, Naufragio con spettatore, si rifà all'omonimo saggio di Hans Blumenberg, evocando al contempo i quadri di Kaspar Friedrich: un'esperienza di contemplazione del paesaggio o del disastro viene attuata in un luogo intrinsecamente meditativo che dal pesaggio stesso si lascia penetrare e modificare
Here the movie




giovedì 27 gennaio 2011

Barcelona Picasso davant Degas november 2010











Wonderful Museum in Barcelona




and the Exhibition of Picasso compared with some relevant Degas




Barcelona Fundació Francisco Godia November 2010


The Francisco Godia Foundation was set up in 1999 by Liliana Godia to honour the memory of her father, Francisco Godia, a brilliant businessman, car enthusiast and art lover.
The Francisco Godia Foundation opened on 1 December 1999 in a first-floor flat in Carrer València in the Eixample neighbourhood of Barcelona, a modest building in which its work could begin.
Exhibitions were held there to display various parts of the collection together with lecture series and workshops for children and school students. Other private collections were also displayed there since the foundation is aware of the important role that private collectors play as a protective and driving force behind our cultural and creative heritage.
Nine years after it was set up, the foundation moved to a grand building: the former Casa Garriga Nogués built by the architect Enric Sagnier. He was the most prolific architect in the well-known Eixample neighbourhood of Barcelona. The foundation's new location allowed us to display the collection better. There are approximately 1,500 pieces on display including paintings, sculpture, glasswork and pottery.
It is one of the largest private collections in Spain and takes visitors on a tour through Catalan, Spanish and international art from the 12th to the 21st centuries. The collection includes works by artists such as Jaume Huguet, Lluís Borrassà, Llorenç Saragossa, Martín de Soria, Felipe de Bigarny, Alejo de Vahía, Pedro Berruguete, Juan van der Hamen, Francisco de Zurbarán, Joaquín Sorolla, Ramon Casas, Santiago Rusiñol, Joaquim Mir, Isidre Nonell, Julio González, Pablo Picasso, Juan Gris, Joan Miró, René Magritte, Fernand Léger, Karel Appel, Antoni Tàpies, Eduardo Chillida, Miquel Barceló and Cristina Iglesias.


Main operas


Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, France, 1973) Girl’s face - Portrait of Marie Laurencinc. 1909 Ink and gouache on paper 16,5x10 cmThis painting of a girl’s face was part of the private collection of Guillaume Apollinaire, a poet. Picasso painted it in Paris in 1909 when he had just come back from a visit to Horta de Sant Joan, which paved the way for Cubism. The polyhedral facial features remind one of African masks.

Lucio Fontana (Rosario, Argentina, 1899 – Varese, Italy, 1968) Concetto spaziale, attese (Spatial concept, waiting)c. 1965 Oil on canvas 80x59 cmIn 1958 Lucio Fontana changed direction: he stopped drawing and started tearing canvases with a burin. His famous tagli, which look like open wounds, have been linked with a metaphysical view of the universe that seeks to materialise space and make the invisible visible


Antoni Tàpies(Barcelona, 1923) Figure-landscape in red1956Mixed process on canvas162x130 cmIn front of the Retrato de Teresa (Portrait of Teresa) we find a classic, figurative Tàpies. This composition from 1956 comes from the peak of material painting. Tàpies worked the surface of the canvas with grattages of different intensities to create a captivating picture that asks questions of the viewer.

sabato 22 gennaio 2011

Claudio Parmiggiani. His Life


Claudio Parmiggiani, nato a Luzzara, si forma all’Istituto di Belle Arti di Modena (1958-1960). Giovanissimo frequenta Giorgio Morandi (il cui influsso sarà più etico che stilistico). La sua prima mostra si tiene nel 1965 alla libreria Feltrinelli di Bologna, dove espone calchi in gesso dipinti che l’artista definisce ‘pitture scolpite’ e che segnano quella che viene considerata la prima apparizione di un calco in gesso nella vicenda artistica delle neoavanguardie. È il tempo del Gruppo ’63 e dei poeti riuniti attorno a “il verri” di Luciano Anceschi ai quali Parmiggiani sarà molto vicino, contribuendo a dar vita a quel clima, proprio del periodo, di intensa collaborazione tra arti visive e poesia. Ma il rapporto fondamentale è con Emilio Villa, con il quale stabilirà un profondo e lunghissimo sodalizio. È del 1970 Atlante, con testi di Balestrini e Villa, opera che si inserisce tra i lavori di misurazione eseguiti tra il 1967 e il 1970: carte geografiche e mappamondi accartocciati, vere antitesi delle certezze del mondo fisico. Sono degli stessi anni opere che coinvolgono totalmente lo spazio, come Luce, luce, luce (1968), dove il pavimento di una galleria è cosparso di pigmento giallo che irradia una luce abbacinante, oppure i labirinti di cristalli infranti (1970), simili a città devastate da una violenta esplosione. Molte sono state le intuizioni che fin dalla metà degli anni Sessanta hanno connotato in modo del tutto originale e precursore la sua ricerca. Uno spirito radicalmente iconoclasta sottende tutto il suo lavoro. Del 1970 sono le prime Delocazioni, opere di ombre e impronte realizzate con fuoco, polvere e fumo, una radicale riflessione sul tema dell'assenza, sviluppato ancora successivamente fino a divenire linea portante di tutto il suo lavoro. Queste opere assumeranno un carattere di fortissimo impatto visivo ed emozionale; ricordiamo le teatrali Delocazioni realizzate al Musée d'Art Moderne et Contemporain di Ginevra (1995), al Centre Pompidou di Parigi (1997), alla Promotrice delle Belle Arti di Torino (1998), al Musée Fabre di Montpellier (2002), al Tel Aviv Museum of Art (2003). Nel 1975 l'artista progetta un'opera, impossibile da vedere nella sua totalità: Una scultura, le cui quattro parti sono collocate in altrettanti ipotetici punti cardinali sulla Terra (Italia, Egitto, Francia e Cecoslovacchia), lavoro che viene terminato nel 1991. La sua lunga storia espositiva è in piena attività con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Negli anni Ottanta è sulla scena dei grandi musei e delle committenze internazionali; nel 1992 è la personale al Pac di Milano, cui segue la lunga serie di personali all’estero - dal Museum Moderner Kunst di Vienna (1987), al Museo d’Arte Moderna di Strasburgo (1987), alla Albert Totah Gallery di New York (1986), a Villa Arson di Nizza, al Palacio de Cristal di Madrid (1990). Al 1989 risale la famosa Iconostasi di statue velate di bianco e tele velate di nero, presentata per la prima volta alla Galleria Christian Stein di Milano; e l’altrettanto celebre Terra (1988), una sfera con impresse le impronte delle mani dell’artista, sepolta nel chiostro del Musée des Beaux-Arts di Lione, come un piccolo pianeta, espressione della natura spirituale dell’opera, tale anche quando è invisibile e luogo di dialogo con la sua essenza. Tra le sue numerose opere permanenti nel paesaggio ricordiamo Il bosco guarda e ascolta nel parco di Pourtalés a Strasburgo (1990). Negli anni Novanta l’attività espositiva è intensissima. Tra gli innumerevoli interventi citiamo le mostre all’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt (1992), alla Galleria d’Arte Moderna di Praga (1993), al Centre Georges Pompidou di Parigi (1997). Nel 1995 una grande retrospettiva è presentata al MAMCO di Ginevra mentre nel 1998 Gianni Vattimo cura una delle sue più importanti mostre realizzate in Italia alla Promotrice delle Belle Arti di Torino. Invitato più volte alla Biennale di Venezia (1972, 1982, 1984, 1986, 1995), ha presentato le sue opere presso numerose altre prestigiose istituzioni internazionali, pubbliche e private. Tra i più spettacolari e spirituali dei suoi interventi, Il faro d’Islanda, (2000), opera permanente solitaria e luminosa nel territorio più desertico dell’Islanda, innalzato in mezzo ai ghiacci. Jean Clair lo invita, unico artista italiano, alla grande mostra Mélancolie: Génie et folie en Occident, al Grand Palais di Parigi e alla Neue Nationalgalerie di Berlino (2005). Nel 2006 nel Teatro Farnese di Parma, l’artista realizza Teatro dell’arte e della guerra, impressionante labirinto di cristalli infranti, immagine di grandiosa bellezza e tragedia. Dopo la potente installazione Ex-voto al Museo del Louvre (2007), opera in aperto dialogo con i rilievi funerari e le sculture gotiche conservati nelle sale del museo parigino, Parmiggiani accoglie l’invito della Città di Pistoia, inaugurando la riapertura di Palazzo Fabroni con una grande mostra, Apocalypsis cum figuris, affidata alla cura di Jean Clair. L’organico inserimento delle sue realizzazioni nello spazio di un luogo di cui l’artista legge e interpreta il senso profondo e la specifica spiritualità, trovano espressione straordinaria nell’opera inaugurale del Collège des Bernardins di Parigi (2008). Del 2009 è la importante mostra Scultura d’ombra alla Simon Lee Gallery di Londra. Del 2010 è il grande intervento in San Giorgio in Poggiale a Bologna. L’“affresco” dipinto a fuoco nelle tre specchiature dell’abside e l’imponente Campo dei Fiori al posto dell’altare maggiore propongono, declinata attraverso modalità antitetiche un’analoga, ricorrente riflessione sul tempo, sull’assenza e sulla «persistenza della memoria». Ogni volta una sfida diversa raccolta con coerenza di intenti e i cui esiti si impongono per la loro eccezionalità. Una profondità di pensiero che non si esaurisce e che, sorretta da una chiara consapevolezza sul significato civile del fare arte oggi, si pone in continuità e in rapporto vivo con la grande tradizione della pittura italiana ed europea.

Claudio Parmiggiani Opere esposte a Parma




















Claudio Parmiggiani. naufragio con spettatore. 22 gennaio 2011


Dal fondo di un naufragio
di Sylvain Amic

A Parma c’erano una chiesa dimenticata e un palazzo abbandonato. La prima era piena di polvere, il secondo pieno di vuoto. Luoghi che attendevano qualcuno per cui polvere e vuoto valgono più dell’oro. Ed è entrato Parmiggiani: chi altri? Ciascuno dei suoi gesti è stato come un calcio dato nel fianco di un animale per svegliarlo. In ogni stanza ha appostato delle sentinelle gravi e melanconiche. E poi ha aperto le porte. Il visitatore che varca la soglia si avventura in un mondo dove il silenzio urla, dove la pietra brucia. Il campo di battaglia di una guerra cominciata esattamente cinquant’anni fa. Claudio Parmiggiani è nato a Luzzara nel 1943. Chi volesse sapere da dove viene non deve fare altro che sfogliare il libro di Paul Strand, Un paese, in cui dieci anni dopo il grande fotografo ritrae questo piccolo paese emiliano. Una raccolta di immagini che mostrano un mondo di terra e di paglia, di acciaio e legno, un mondo di lavoro e di sangue, anche. Un mondo avaro di parole, fatto di lentezza e di dignità. Un paese scomparso. Noi viviamo da allora nel tempo del neon e della televisione. Un tempo che vuole abolire il tempo. Ciò che la mano sapeva, l’abbiamo perduto. Ciò che l’occhio sentiva, non lo percepiamo più. C’è tanto rumore, nel nostro tempo, che non ci voltiamo più a guardare ciò che è crollato. Tanto le promesse di felicità che le tragedie, grandi e piccole, scorrono via come pioggia. Parmiggiani ha visto tutto questo. Ha visto corrompersi le cose più sacre, la parola diventare moneta, l’arte diventare pubblicità. Il suo esilio volontario dalla scena artistica italiana e il suo ostinato silenzio da quarant’anni equivalgono a una presa di posizione unica e radicale. In un contesto in cui la confusione dei valori è la regola, la sua assenza è diventata una forza morale e il suo silenzio un’autorità critica. Lontano da ciò che ha fatto “l’attualità” dell’arte, lontano dai gruppi, dai movimenti che da decenni hanno monopolizzato l’attenzione, egli ha sviluppato un linguaggio al tempo stesso intimamente personale e universale. All’inizio la sua opera ha voluto trasformare il mondo, immergersi nei suoi segreti più ermetici; ma poi la lotta si è fatta più dura, più nera, come se si avvicinasse la battaglia finale. Il colore ha lasciato posto all’ombra, il pennello al fuoco, il pigmento alla cenere. Il silenzio si è fatto più denso. Così qui è il silenzio Il silenzio di Claudio Parmiggiani nel tempo è divenuto un materiale, uno spazio che egli modella. Riunisce le sue opere fra loro, le porta al mondo e le rende intelligibili. È un emblema, un’etica, che nasce da quello che in lui vi è di più profondo. Risaliamo indietro nel tempo. Nella primavera del 1964 Parmiggiani incontra il poeta Ezra Pound nel suo ultimo esilio, a Venezia: “Non voleva più parlare, che è ben diverso dal non scrivere più o dal non dipingere più. Non parlare più, come segno di una visione ulteriore della poesia. Guardava, ascoltava senza dire mai una sola parola”1. Proseguendo ancora un po’ più in là. Un altro silenzio incrocia la strada del giovane artista, quello dello studio di Giorgio Morandi a Bologna, in via Fondazza, a cui Parmiggiani fa visita nei pomeriggi d’estate: “Finestre appena socchiuse per lasciar fuori il caldo e il mondo, niente altro che il tic-tac del pendolo; tutto era immobile”2. “Non ci si è soffermati abbastanza sull’importanza di questo luogo assoluto, simile alla cella di un san Girolamo, una piccola arca di Noè con dentro le cose più filosofiche: gli oggetti umili e silenziosi dello sguardo quotidiano”3. Continuiamo la risalita nel tempo, verso la fonte, la casa dell’infanzia, isolata nella campagna del Po. “I miei genitori erano braccianti agricoli. […] Mio nonno era un uomo che sapeva fare di tutto con le sue mani. Sua madre, ebrea, era di origine tedesca e a causa della lingua non si erano mai veramente parlati”4. Si aggiunga l’immagine delle barche “lente e nere”, sospinte da uomini “come ombre” e si capirà l’origine, al tempo stesso segreta e meditativa, di questo silenzio. Un disegno del 1971 mostra le pareti di una stanza vuota. Claudio Parmiggiani vi ha martellato questa parola come un’ingiunzione: Silenzio ai muri, Silenzio al soffitto, Silenzio, Silenzio. Nel 1973, sulla pagina “Cultura e attualità” della Voce Repubblicana, l’organo ufficiale del Partito Repubblicano Italiano, si trovano alla rinfusa Warhol, Tiziano, la rivoluzione culturale, l’energia geotermica, una sonda russa arrivata sulla Luna. Da tutto questo tumulto, stampato su nove colonne, Claudio Parmiggiani estrae, come con un bisturi, un’unica parola, che depone al centro di una pagina bianca: “Silenzio”. Il silenzio è ormai un’arma, un’insurrezione. Quando si chiede all’artista che cosa possa ancora significare, al giorno d’oggi, il termine “sovversione”, lui risponde: “Silenzio, per esempio. Oggi ‘silenzio’ è una parola sovversiva, ed è sovversiva perché è uno spazio meditativo”5. Il silenzio di Parmiggiani è violenza, come nelle Delocazioni fatte di fumo o nei labirinti di vetri rotti. L’aria che circonda queste opere vibra ancora del fragore che ha sovrinteso alla loro creazione, in quel silenzio che è qui giusto definire assordante. Ma, come in Rilke, tale silenzio è ancor più temibile del rumore che lo ha preceduto: “Questi sono i rumori. Ma c’è, qui, qualcosa di più pauroso: il silenzio. Credo che durante i grandi incendi sopravvenga a volte un momento di tensione estrema, i getti d’acqua ricadono, i pompieri non si arrampicano più, nessuno si muove. Senza rumore un cornicione nero si protende in cima, e un muro alto, dietro cui il fuoco divampa, si inclina, senza rumore. Ognuno attende immobile, le spalle alzate, il viso contratto sugli occhi, il fragore tremendo. Così qui è il silenzio”6. Agli aspiranti pittori Henri Matisse diceva: “Si dovrebbe cominciare tagliandovi la lingua, perché a partire da oggi dovrete esprimervi unicamente con mezzi plastici”7. Come quello di Matisse, il silenzio di Claudio Parmiggiani non è un’assenza, ma un’esigenza morale. è all’opposto di un altro silenzio, concertato questo, e da molto tempo posato sulla sua opera come un coperchio. Nel 1981, una manifestazione internazionale dal titolo “Identité italienne” voleva tracciare un panorama dell’arte in Italia a partire dal 1959. Il suo organizzatore non ritenne allora di includervi Claudio Parmiggiani, e nemmeno di citare il suo nome nel saggio di introduzione al catalogo8. Scelte queste che appaiono oggi come errori grossolani, e che gettano discredito sulla dichiarata ambizione di fare la storia. Perché il 1959? Non c’è una valida motivazione. A meno che quell’anno, come ricorda il catalogo, non sia stato scelto perché anno di fondazione di Finarte, “istituto finanziario con lo scopo di applicare nel campo dell’arte operazioni bancarie atte a sviluppare attività commerciali e finanziarie”9. Un avvenimento di buon auspicio per una generazione assai dinamica sul mercato dell’arte, anch’essa celebrata dall’esposizione. Misura per misura, silenzio per silenzio, Claudio Parmiggiani non si è mai espresso sull’argomento. Tuttavia, nel 2003, egli torna su quegli anni di ostracismo in un testo indirizzato a un amico artista: “Aver rifiutato di sedersi ad una mensa ha significato nel tempo e nell’indifferenza il quotidiano occultamento di una storia, non tanto la mia, la nostra: la cancellazione delle impronte che, giorno dopo giorno, abbiamo lasciato a piedi nudi su un sentiero. Ha significato pagare. L’abbiamo fatto in silenzio, ma a voce alta. Ti scrivo questo dopo un urlo lungo quarant’anni e per una verità, ora basta”10. Disjecti membra Poetæ, le membra sparse del poeta In questo contesto, l’opera di Claudio Parmiggiani si è costruita come una resistenza. Una parola con cui è cresciuto, nella casa rossa sulle rive del Po: “Quando la guardavo da lontano, quella casa rossa mi sembrava la più speciale di tutte; era la più speciale, ma anche la più pericolosa. Era una casa politica, una specie di direzione strategica. […] La casa era considerata dai contadini un luogo di sovversione, […] lì si era appena formata la prima cooperativa rossa operaia del dopoguerra in Italia”11. Come nella clandestinità, il suo lavoro è fiorito nei luoghi più inattesi, lontano dalle piazzeforti dove si scriveva una certa storia dell’arte. Un faro perduto nel bel mezzo della terra d’Islanda. La traccia di mani d’oro sul Monte d’Oro. Un pianeta sotterrato nel chiostro del Musée des Beaux-Arts di Lione. Un bosco che guarda e ascolta a Strasburgo. Un uovo di marmo in un anfratto roccioso a Carrara. Una testa posata su un pozzo a Rennes. Una fontana dalla quale il vino scorre una volta l’anno a Aubigné-sur-Layon. Parmiggiani ha cosparso la terra di segni segreti che, come semafori, trasmettono il loro messaggio, gradatamente, da uomo a uomo. Un sistema arcaico e sicuro, che poggia sulla fiducia e la vigilanza. Come per deiscenza, le opere, i semi, si vedono proiettate lontano dall’albero che le ha generate. Ma il vero artista si preoccupa del loro destino, come un padre dei suoi figli. Ci sono quelli che sa felici, ben sistemati, ci sono quelli per cui si soffre, ci sono quelli di cui arrivano notizie di tanto in tanto, quelli la cui assenza è crudele, quelli che a volte bisogna salvare. Per Caspar David Friedrich, Parmiggiani ha cercato per cinque anni nuovi porti, Darmstadt, Madrid, Barcellona, Glasgow, Praga, Marsiglia, fino a quando la grande barca nera e le sue tele hanno riguadagnato un luogo sicuro e amico, Reggio Emilia. Angelo Parmiggiani ha dovuto portarlo via tra le braccia all’indomani dell’inaugurazione della Biennale di Venezia del 1986, strappandolo a un contesto che riteneva inaccettabile. Per lo Zoo geometrico di Nantes, era troppo tardi: il museo l’aveva distrutto. Questa diaspora non è che il frutto della necessità, o di un processo naturale. La sua forma esplosa è anche il riflesso di un pensiero che sfida il tempo e lo spazio. Così Parmiggiani ha composto Una scultura, un’opera dispersa ai quattro venti, costruita in quattro luoghi in un periodo di sedici anni, dal 1975 al 1991. Clavis è a nord, vicino a Brescia, Pietra a sud, su un’isola del Nilo, Torre è a ovest, vicino ad Albi, Casa sotto la luna è a est, a Sobotka, nella Repubblica Ceca. “Avevo pensato”, scrive l’artista, “di disseminarne e nasconderne le quattro parti, Nord, Est, Sud, Ovest in altrettante parti del mondo, disperderne le membra, disgregare anziché aggregare, compiere all’inverso quello che chiamiamo ‘processo creativo’, trasformare non un’idea in oggetto, ma un oggetto in idea, e seppellirla nella lontananza”12. Quattro paesi, quattro campagne, quattro lingue, ma una sola scultura, un solo materiale universale, il mattone. Un’opera fatta con la terra e le mani, come gli uomini hanno sempre costruito la propria casa. Dispersa, Una scultura è più forte. È come uno stratagemma, un rebus i cui quattro enigmi proteggono l’ingresso di un santuario sconosciuto. Una scultura, di cui lo spettatore non vede mai che un frammento, appare come una metafora del lavoro stesso di Claudio Parmiggiani. Utilizzato nel suo valore di sineddoche, il frammento vi svolge da sempre un ruolo fondamentale. Frammenti di calchi in gesso, teste, mani, seni, busti, ci dicono l’uomo, la donna, percepiti attraverso la loro forma senza tempo, quella che ci ha tramandato l’antichità. Oggetti trovati, scarpe, cappelli, casse di orologio, barche, custodie di violini, sono come l’involucro di un corpo assente e richiamano l’angoscia fondamentale della perdita e della morte. Nelle opere di Parmiggiani il frammento non è una citazione, come si è voluto credere. Così come non è un commento. Interpretare questo lavoro come un’espressione specificamente italiana, come il prodotto di molti secoli di cultura umanistica, è al tempo stesso giusto e sbagliato. Perché, se l’artista è colto, la sua opera non chiama in causa né riferimenti, né codici, né simboli; essa riunisce materiali che sono nostri, e che noi d’un colpo scopriamo altri, sorpresi dalla loro nuova eloquenza. E se talvolta vi risuona l’eco degli artisti o dei poeti del passato, è perché anche loro hanno guardato il mondo e nel loro tempo hanno lottato per trarne la stessa bellezza e la stessa verità. L’opera di Parmiggiani non ha mai smesso di mettere radici sempre più profonde nella cultura, nella terra e nel cielo d’Italia. Ma si tratta di un’Italia presa come metafora dell’umanità intera, e non di una tradizione dalle virtù paralizzanti. Parmiggiani si è sempre posto al di là di questa eredità: “Nessun antagonismo”, scrive, “esigere tutto e unicamente da se stessi. Non superare gli altri, ma se stessi. Ignorare i propri contemporanei così come quelli che ci hanno preceduto. Sentirsi soli e assoluti”13. Sono stati molti coloro che hanno ripreso gli elementi di questo linguaggio plastico. Nell’Italia contemporanea sono comparsi qua e là fumi fuligginosi, teste di antichi, vetri infranti, campane di bronzo, come se si trattasse di un patrimonio comune che chiunque avesse diritto a usare. Ma così come i monumenti antichi hanno fornito le pietre per oscure stamberghe, allo stesso modo si è attinta dal lavoro di Parmiggiani la materia per opere mute. Davanti a questi oggetti, di cui si riconosce la forma senza più comprenderne il senso, si resta interdetti, in attesa di una rivelazione che non arriva. Per anni la voce di Parmiggiani si è così trovata circondata da un brusio mistificatorio. Ma come scrive Orazio, Invano a questi versi leverai l’armonia, i loro brandelli conserveranno l’impronta del genio14. Perché il tempo è passato su queste opere che hanno spadroneggiato nella nostra epoca. Oggi, al tempo delle retrospettive, è il disinganno a prevalere. Un sentimento di vacuità, come se il motore che le animava si fosse messo a girare a vuoto, senza produrre niente che non sia una ripetizione, in un’assurda tautologia che l’apparato teorico non riesce più a dissimulare. La posizione stessa di questi artisti è diventata oggi incomprensibile. La loro voce non va al di là di loro stessi e non comunica al mondo nient’altro che il comfort in cui si sono sistemati. All’opposto, l’opera di Claudio Parmiggiani si dispiega nel tempo come un progetto globale la cui coerenza, unicità e importanza non fanno che aumentare. Questi ultimi vent’anni hanno visto al tempo stesso la comparsa di motivi completamente nuovi (l’àncora, la campana) e la riattivazione di antiche opere (Delocazione, labirinto di vetro, pigmenti…). Parmiggiani lavora ormai con ciò che è meno concreto: la polvere, il vuoto, il fuoco, il fumo. In questo territorio fatto di respiri, in cui nessuno si è avventurato prima di lui, costruisce una sorta di roccaforte inespugnabile, perché impalpabile. Il rinnovamento a cui assistiamo va a vantaggio dell’insieme dell’opera: il presente illumina il passato, svela i legami sotterranei che mettono in comunicazione lavori che sembravano estranei gli uni agli altri. Così l’opera diventa totale, come se i frammenti sparsi di un corpo smembrato venissero finalmente riuniti. In questo stesso periodo i suoi interventi pubblici si sono fatti più rari. Ma colpiscono sempre più forte, come colpi ripetuti su una porta chiusa. È un teatro di paura e di drammi in cui, man mano che la violenza della nostra epoca va crescendo, si fa strada un sentimento tragico dell’esistenza. La deambulazione in questi spazi non è neutra. Nessun artificio qui a distrarre l’occhio, ma un lago nero come uno specchio in cui il mondo guarda se stesso sprofondare. Su quest’acqua piena dell’inchiostro dei libri, Parmiggiani, come “un bambino malinconico inginocchiato lascia andare/ Un battello leggero come una farfalla a maggio”. Le navi, le barche che passano nelle sue opere sono come delle arche. Portano ciò che l’umanità ha di più prezioso: pianeti, farina, tele dipinte, animali meravigliosi. Portano i sogni dell’uomo, per salvarli dal naufragio. Il sogno, il mio studio15 La potenza dell’immagine e la funzione del sogno nella sua elaborazione sono due aspetti fondamentali dell’opera di Claudio Parmiggiani e della sua comunicazione con il mondo. Se l’opera è eloquente è perché l’artista ha creato un’immagine affascinante, che nasce da una visione. Questa visione che si è imposta all’artista può essere trasmessa allo spettatore, perché agisce sulle stesse forze: i sogni sono esperienze condivise da tutti. Parmiggiani ha talvolta descritto i propri in interviste, oppure in poesie come In sogno, pubblicato in Stella, Sangue, Spirito. I sogni di Parmiggiani non sono i nostri; ognuno rielabora nel sonno le proprie ossessioni personali, situazioni, paure, desideri. Nei suoi, si incontrano uomini che tirano reti in cui sono rimaste impigliate rondini e numeri, statue incandescenti, scale di pane che salgono verso il cielo, balene che soffiano getti di stelle. È molto improbabile che si sogni di versare una scodella di sangue su un prato verde, di spingere barche che trasportano vecchi arcobaleni; in compenso, la meraviglia – o lo sgomento – che proviamo immergendoci in un mondo completamente trasformato è universale. I sogni di Parmiggiani sono matrici per opere che verranno realizzate prima o poi, oppure mai. Comunque sia, esistono già nel suo studio: “Il migliore degli studi”, dice lui, “è la mente”16. È in questo luogo, in cui l’opera è presente nella sua totalità, che nascono le immagini, come le stelle nell’universo. Quando gli si chiede come nasca un’opera, l’artista risponde: “So solo che un mattino ci si sveglia con delle immagini dentro, senza domandarsi da dove vengano, né come, né perché… senza chiedersene la ragione… come se la ragione fosse questa estrema concentrazione di irrazionale… Fluttuano, si disperdono, ritornano nel corso dei giorni o degli anni a venire. E ritornano perché vogliono tornare, perché devono tornare, perché chiedono con insistenza di poter esistere… che venga data loro una forma fisica”17. Questa fabbrica di immagini è anche un teatro delle ombre, una presenza costante nel lavoro di Parmiggiani, a partire dall’Autoritratto come ombra fino ai disegni dove uomini lottano con la propria ombra, frustano la propria ombra, non sono più altro che ombre. “All’ombra è legato il senso della nascita e della morte”, scrive; “essa è il luogo occulto in cui immagini e idee prendono forma”18. Disegnare l’ombra degli oggetti ha fatto parte per secoli dell’apprendistato degli artisti. La generazione di Parmiggiani è stata fra le ultime a ricevere questo insegnamento. Ma l’arte in questi stessi secoli si è accontentata di porre delle ombre su una superficie piana per dare l’illusione dello spazio. Dopo il 1970 e la prima Delocazione, Parmiggiani pone delle ombre su spazi molto reali, su architetture del nostro mondo. Queste ombre non sono astratte, ma sempre legate a una presenza umana il cui ricordo resta palpabile, come una forma calcata nella sabbia. Libri, statue, orologi, scale, bottiglie sono oggetti che l’uomo ha lavorato e maneggiato e la cui ombra è rimasta per sempre sui muri. A volte, attirata dalla luce del fuoco, una farfalla si è fatta catturare; la sua impronta ci indica che non è solo l’ombra ma l’anima delle cose, che in questo processo di metempsicosi, è migrata sui muri coperti di fuliggine. Terra d’ombra Così le ombre di Parmiggiani si separano dall’oggetto a cui erano legate e quando esso scompare restano. Così è possibile che il sogno non sia che una chimera, e che sia permesso di misurarne sul nostro suolo i percorsi labirintici. Col suo faro, le sue mani d’oro, ci sembrava già che Parmiggiani avesse viaggiato negli abissi per riemergere carico di luce. Nelle Delocazioni ritorna carico di ombre, mentre Orfeo, Dante e Virgilio sono tornati dagli inferi da soli. Mi piace immaginare Parmiggiani come un pastore che spinge davanti a sé un gregge di ombre. Tra queste Yeats, Nicolas Flamel, Majakovskij, e molti altri. In fondo so che è davvero così. Queste voci emerse dal passato ci sussurrano, come Parmiggiani con Infinito, che la ricerca dell’infinito non porta che al qui e ora: in fondo allo spazio, attraverso il libro di astronomia bruciato, è solo il muro, a cui l’opera è appesa, ciò che vediamo. Ed è questo muro, contro cui sbattiamo, a cui tutto ci riporta, che l’artista deve distruggere. Deve stringere il presente, costringerlo a consegnare ciò a cui non avremmo mai dovuto rinunciare, la bellezza, il cielo, la vita. “Credo di poter comprendere una sola cosa del mio lavoro”, scrive, “la determinazione con cui vuole strappare il sogno, o un sogno, dal suo cielo per imporlo alla realtà. Mescolare il sogno alla terra, il sogno al sangue, materialità e immaterialità. Immergere non la vita nel sogno, ma il sogno nella vita”19. Tutto lo sforzo di Parmiggiani è in questo: sentire il dolore, conoscere la sofferenza, conoscere il peso delle cose, ma sempre vedere ciò che il mondo può, e mostrare ciò che nasconde. Come esprimere in maniera più efficace che con Pane, trecentosessantacinque pani di ferro pesanti come palle di cannone, cos’è la fame e come conquistare il pane quotidiano? Come esprimere meglio che con Angelo, due scarpe immerse nel fango ma il cui occupante ha preso il volo, che sì, forse siamo fatti di fango, ma la nostra testa tocca le stelle? Come dire meglio che con Cenere, cento contenitori di cenere allineati, che di noi non resterà niente, ma che da quel niente nasce tutta la vita? È la condizione umana, in fondo, l’unico soggetto di Claudio Parmiggiani. Ogni volta che il posto concesso all’uomo si restringe, è lui a lottare per ritagliarvi lo spazio del sogno. È lui l’àncora conficcata nel muro del palazzo di Parma. È lui il sangue nella croce-reliquiario; è lui questo “suicidato della società”, questa campana appesa per il suo batacchio, torturata, resa muta. Parmiggiani non ha rinunciato. Dal fondo di questo naufragio, dove ci troviamo, lancia segnali. Costruisce fari. Il cielo è tutto un presagio e il mondo è tutto un prodigio. Calderón


http://www.radioemiliaromagna.it/cultura/mostre/parma_naufragio_spettatore.aspx

mercoledì 19 gennaio 2011

London. Mischa Maisky plays Dvorák's Cello Concerto









London 17th January 2011

Mischa Maisky plays Dvorák's Cello Concerto
The young Venezuelan Diego Matheuz conducts the Royal Philharmonic Orchestra, with cellist Mischa Maisky. Hector Berlioz's Overture: 'Le Carnaval Romain'; Antonin Dvorák's Cello Concerto; and Mussorgsky's Pictures at an exhibition

Wonderful energy in the Dvorak interpretation by Maisky
The cello sound seems not entirely able to reach the whole auditorium (I was in the rear stalls level 4 seat JJ 22)
but the way he plays is actually confident

http://www.youtube.com/watch?v=6ubsduqoYZA

domenica 16 gennaio 2011

Quimper Musée des beaux-arts 4 august 2010







Chassériau, Portrait de mademoiselle de Cabarrus Situé au coeur de la capitale cornouaillaise, face à la cathédrale Saint-Corentin, le musée des beaux-arts de Quimper a été créé en 1864 à la suite du legs consenti à sa ville natale par le comte Jean-Marie de Silguy de sa remarquable collection de peintures et de dessins.

L'unique exigence du généreux donateur était qu'un musée soit construit pour l'accueillir. Bâti sur les plans de l'architecte Joseph Bigot, à qui l'on doit aussi les flèches de la cathédrale, le musée de Silguy est ainsi inauguré en 1872.

Après une première rénovation en 1976, le musée a fait l'objet de 1991 à 1993 d'importants travaux d'extension et de restructuration qui ont permis, outre l'accroissement des surfaces d'exposition et l'aménagement de nouvelles structures d'accueil, de reconstituer selon sa disposition initiale l'ensemble du décor réalisé par Lemordant en 1905-1909 pour les salles à manger de l'hôtel de l'Epée à Quimper. L'ensemble des travaux a été dirigé par l'architecte Jean-Paul Philippon.

Enrichi progressivement par divers dons, legs, dépôts et achats, le musée des beaux-arts de Quimper compte aujourd'hui parmi les plus riches musées de Bretagne et de province. Issue pour l'essentiel du fonds de Silguy, la collection de peintures anciennes se répartit entre les Ecoles du Nord qui forment un ensemble particulièrement riche et cohérent (Van Haarlem, Rubens Van Mol, de Grebber...), l'Ecole italienne moins homogène mais néanmoins de grande qualité (Bartolo di Fredi, Dell'Abate, Guido Reni, Solimena...) à laquelle il convient d'ajouter trois chefs-d'oeuvre isolés de l'Ecole espagnole des XVIIe et XVIIIe siècles et l'Ecole français, particulièrement riche pour les XVIIIe et XIXe siècles (Boucher, Fragonard, Hubert Robert, Labille-Guiard, Meynier, Chassériau, Corot, Boudin...).

Constitué dès les années 1870, à partir de dépôts de l'Etat ou d'achats au Salon annuel, le fonds de peintures d'inspiration bretonne constitue l'un des points forts de la collection quimpéroise et l'une des priorités de l'actuelle politique d'acquisition du musée. Un ensemble important de peintures, souvent de grand format, illustre les différents thèmes qui depuis le début du XIXe siècle fascinent les artistes : le légendaire avec Luminais et Yan' Dargent, les paysages maritimes avec Gudin ou Regnault, la vie quotidienne et religieuse avec Perrin, Leleux, Guillou et Jules Breton. Malgré l'absence de Gauguin, l'Ecole de Pont-Aven constitue l'une des autres grandes richesses du musée avec des oeuvres de réputation internationale de Sérusier, Bernard, Maufra, Meyer de Haan... auxquelles il convient d'ajouter quelques oeuvres nabies (Lacombe, Vallotton, Denis...) et symbolistes (List, Harrison...).

Une séquence consacrée à la peinture en Bretagne des années trente à aujourd'hui (Gruber, Tal Coat, Bazaine, Asse, Dilasser...) complète et prolonge cet ensemble. La sculpture bretonne de la première moitié du XIXe siècle est également représentée au musée par un ensemble significatif d'oeuvres du bigouden René Quillivic. Un hommage est par ailleurs rendu au poète et peintre quimpérois Max Jacob (1876-1944) dont la vie et l'oeuvre sont illustrés par un ensemble de dessins, gouaches, photographies, lettres et manuscrits qu'accompagnent quelques oeuvres (gravures, dessins, peintures, céramiques...) de ses illustres amis (Picasso, Cocteau, de Belay, Léonardi, Jean Moulin...).

Max Jacob, biographie

Fils d'un tailleur établi à Quimper, Max Jacob entreprend, après de brillantes études secondaires, des études à l'Ecole coloniale à Paris. Il les abandonne au profit de la critique d'art, écrivant sous le pseudonyme de Léon David dans le Moniteur des Arts. La fréquentation des ateliers et des expositions lui permet de rencontrer Picasso en 1901. Le peintre catalan habitera chez Max Jacob à partir de 1902, avant que ce dernier aille rejoindre en 1907 la rue Ravignan à Montmartre, peu après l'installation du peintre au Bateau-Lavoir.

Max Jacob est alors le témoin privilégié de la naissance du cubisme, assistant en particulier à la genèse des Demoiselles d'Avignon. Il se lie alors avec Juan Gris, Apollinaire, Braque ou André Salmon. Après des contes pour enfants, Max Jacob entreprend de réinventer la poésie en prose : Saint-Matorel (1911) et le Siège de Jérusalem (1914), illustrés par Picasso et les Œuvres burlesques et mystiques du frère Matorel (1912) avec des dessins de Derain, tous trois édités par Kahnweiler, précèdent le célèbre Cornet à dés (1917) édité à compte d'auteur.

Jusqu'en 1921, Max Jacob fréquente la bohème montmartroise et se lie avec la plupart des écrivains et artistes du moment. L'amitié de Cocteau sera indéfectible ; Modigliani fera de lui des portraits émouvants.

Deux apparitions du Christ (la première sur le mur de sa chambre en 1909, le seconde en 1914) le convainquent d'abandonner la religion juive pour la foi catholique. Le baptême aura lieu l'année suivante sous le regard de son parrain Picasso. Sa vie sera désormais différente.

De 1921 à 1928, il s'installe dans l'abbaye de Saint-Benoît-sur-Loire, où il demeurera de nouveau à partir de 1935, et jusqu'à sa mort en 1944. Il écrit d'innombrables méditations religieuses et dessine des scènes inspirées par la Bible.

Parallèlement à son œuvre d'écrivain, essentiellement des poésies où il démontre son incomparable talent de jongleur de mots (La Défense de Tartuffe, 1919, Cinematoma, 1920, Le Laboratoire central et le Roi de Béotie, 1921, L'Art poétique et Le Cabinet noir, 1922, Filibuth ou la montre en or et La Couronne de Vulcain, 1923, etc...). Max Jacob, qui s'était essayé à la peinture à son arrivée à Paris, va se consacrer de plus en plus à cet art.


A partir de 1919, il exposera régulièrement ses gouaches qui lui procureront les ressources que l'écriture ne lui apporte pas. Elles sont inspirées par des paysages de Bretagne, de Paris ou du Val de Loire, par les fresques romanes qu'il admire ou par les scènes de cirque qu'il affectionne particulièrement.

Durant la période du Bateau-Lavoir, il avait adopté une technique faite de formes géométriques, qui n'était pas sans relations avec le cubisme. Il la reprendra dans les dernières années. Son art se partage alors entre des gouaches à l'expression spontanée et d'autres copiées d'après des cartes postales, plus alimentaires et plus banales.


Durant toute sa vie, Max Jacob a par ailleurs été un "découvreur" de talents, encourageants peintres, écrivains et musiciens, écrivant des préfaces ou servant d'intermédiaire avec ses amis et relations. André Malraux, Paul Dubuffet, Roger Toulouse, Josep de Togorès, Francis Poulenc, Henri Sauguet, Christopher Wood ou Giovanni Leonardi lui sont tous plus ou moins redevables.


De 1928 à 1935, de retour à Paris, Max Jacob s'abandonnera aux mondanités et au dandysme, entouré de toute une génération de jeunes poètes comme Marcel Béalu, Michel Manoll ou René-Guy Cadou, qui voient en lui, à travers Le Cornet à dés, l'inventeur de la modernité. Sa correspondance est considérable.


Max Jacob va consacrer ses dernières années, particulièrement douloureuses, à prophétiser la catastrophe qui s'annonce. Bien qu'authentiquement chrétien, il est contraint de porter l'étoile jaune.


En 1942, sa sœur Julie-Delphine meurt, anéantie par la peur. L'année suivante, son frère Gaston, puis en janvier 1944, sa sœur chérie Myrté-Léa sont déportés à Auschwitz, dont ni l'un ni l'autre ne reviendront. Max Jacob est finalement arrêté le 24 février 1944, emprisonné à la prison d'Orléans, puis déporté quatre jours plus tard au camp de Drancy d'où partaient les convois vers l'Allemagne.
Il y meurt d'une pneumonie le 5 mars 1944.

sabato 15 gennaio 2011

Genova Il buio di giorno. Teatro Duse 16 December 2010



Il buio di giorno

Si chiude con questa drammaturgia, al teatro Duse dal 16 al 23 dicembre, il ciclo di “produzioni speciali” che lo Stabile di Genova ha dedicato, in questo aspro esordio di inverno, alla drammaturgia contemporanea. Lavoro dello svedese Henning Mankell, forse più noto in Italia per i romanzi del commissario Wallander, è presentato nella versione italiana di Graziella Perin e per la regia interessante di Filippo Dini, collaborato da Carlo Orlando, e si avvale, come sempre in tutte le cinque opere del ciclo, di Guido Fiorato per scena e costumi e di Sandro Sussi per le luci. In scena Federico Vanni, il padre, e Ilaria Amadasi, la figlia, che danno una buona prova delle loro capacità anche scontando una certa acerba rigidità mimica forse figlia della indubbia durezza del testo. Storia di immigrazione clandestina nella 'fortezza europa' ne travalica e presto ne travolge ogni coordinata politica o semplicemente sociologica per aprirsi ad un sguardo impietoso sulla condizione umana oltre la storia. Indubbiamente sensibile e padrone della migliore tradizione drammaturgica scandinava, quella per internderci che parte da Ibsen e Strindberg e prosegue con il più vicino Bergman, Mankell utilizza una tragica, e purtroppo assai comune, fabula contemporanea non tanto come pretesto quanto come grimaldello per indagare i meccanismi più profondi dell'essere umano nei nostri giorni. Padre e figlia, senza nome quasi ad indicare la loro matrice metaforica, sfuggiti da un non meglio determinato paese del terzo mondo, che ancora li perseguita nei loro incubi di oppressione e tortura, in un viaggio disperato durante il quale la madre, ambiguamente come in un enigma che si ripropone continuamente, ha perso la vita, si ritrovano sepolti e clandestini in uno squallido appartamento di una grande città. Aspettano che chi li ha traghettati fornisca loro i documenti ed una nuova identità, nel mentre quella loro passata è ormai cancellata e pericolosa. Aspettano, ma i giorni passano e sempre più appare chiaro che nessuno arriverà. È da questo contesto narrativo che si innesca l'indagine profonda della drammaturgia che analizza ed esplicita il progressivo traguardare della mente oltre ogni confine e limite, al di là anche dei tabù più intimi, per mostrarci nella loro nudità il rapporto tra un padre ed una figlia, tra un uomo e una donna, rapporto che si dibatte inutilmente tra la solidarietà o la tacita condivisione e la contrapposizione irresolubile. La disperazione che nasce dallo sradicamento culturale e dalla conseguente perdita di una identità stabile non appare però, in questa drammaturgia, la causa di un tale angoscioso slittamento, ma solo l'occasione di un processo più profondo che affonda le sue radici nelle pulsioni più nascoste, per così dire nei demoni dell'animo. Un linguaggio duro, che si spinge a volte fino alla violenza, accompagna quest'opera di denudamento dell'intimità umana, che il testo e la trascrizione scenica rendono esplicita, fino alla finale pulsione di morte che si intreccia con il disperato grido di libertà della figlia. È una drammaturgia cupa e notturna, quasi claustrofobica, e per questo talora inquietante e angosciante fino al limite del rifiuto, laddove la brutalità della tentata violenza sessuale del padre sulla figlia sembra sul punto di travolgere ogni possibilità ed ogni volontà di controllo e organizzazione del pensiero cosciente. Ma proprio per questo è una drammaturgia importante che riporta l'attenzione, un tempo molto più diffusa, delle nostre scene sulla drammaturgia nordica che sembra non aver mai cessato di indagare l'essenza profonda della psiche umana. Concorde l'accoglienza del pubblico presente.

Maria Dolores Pesce (dramma.it)

Genova 9 December 2010 Don Chisciotte




DON CHISCIOTTE
Nuovo Teatro Nuovo


A.Latella/Nuovo Teatro Nuovo

da M. Cervantes
drammaturgia F. Bellini
con Massimo Bellini e Stefano Laguni
disegno luci Giorgio Cervesi Ripa
realizzazione scena Clelio Alfinito
realizzazione costumi Cinzia Virguti
assistente volontaria Lucrezia Spiezio
foto di scena Brunella Giolivo
regista assistente Tommaso Tuzzoli
regia Antonio Latella


In una sala d'attesa due uomini fuori dal tempo: Don Chisciotte erotomane e istrionesco, ma anche profondo e appassionato e il suo scudiero Sancho Panza, sarcastico e razionale parlano e si ascoltano. Sono il doppio che popola la letteratura e il teatro, così simili nella loro follia e così diversi nella loro voglia di tornare alla realtà. Uno scudiero-terapeuta per un cavaliere-psicotico.
Lo spettacolo è all’insegna della schizofrenia, tutto è doppio e diviso in due: da una parte la realtà, dall’altra la finzione. Niente è taciuto, tutto viene detto in un linguaggio a tratti osceno, volgare, ma anche poetico, filosofico, alla ricerca di una comunicazione intima che renda conto del troppo dolore della vita e degli infiniti rumori, disturbi, della mente. Don Chisciotte e Sancho Panza entrano ed escono dal loro mondo inventato, su e giù per il palco in tuta e pantofole, come pazienti d’ospedale, si parlano decostruendo e ricostruendo grammatiche. Una comicità compiaciutamente triviale ma sempre segnata dai temi, saldamente uniti, della follia e dell'urgenza di amore.
«La poesia non si tocca» è l’unica regola che ripetono più volte. Niente di meglio del rifugiarsi nei libri per cercare la salvezza dal dolore dell’esistenza. Sono i libri, infatti, che irrompono nella vita del Cavaliere errante permettendogli di vagabondare nella fantasia, di combattere contro i mulini a vento. E “la drammaturgia è come la lasagna”: strati e strati di parole, farciti di imbottitura favolistica d’ogni tipo, ma che se non cotti bene, immangiabili.
Il segreto è la cottura dunque. E cosa fa cuocere a puntino la drammaturgia? «Le imprese». Le imprese da compiere sono ciò che la fa esistere e, perciò, le uniche in grado di dar vita al Cavaliere errante.
Libri per proteggersi, per rifugiarsi, per scappare e cercare.
Riuscirà in questo modo il nostro eroe a combattere il suo 'mal-di-vita'? Forse sì, accettando di diventare letteratura… anzi di più: preparandosi a diventare teatro.


Antonio Latella, attualmente direttore artistico del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e uno dei più talentuosi registi della sua generazione. Poco più che trentenne è chiamato a dirigere uno dei corsi dell'École des Maîtres (scuola itinerante internazionale, di perfezionamento teatrale, per giovani attori di diverse culture) in precedenza affidati ai più importanti maestri del teatro internazionale come Jacques Delcuvellerie, Luca Ronconi, Jerzy Grotowski, Anatolij Vasil'ev, Jacques Vassalle, Giancarlo Cobelli, Peter Stein, Dario Fo, Eimuntas Nekrosius, Lev Dodin.
Nel 2001 è vincitore del premio speciale UBU per il progetto “Shakespeare ed oltre” e del premio Vittorio Gassman nel 2004 come miglior artista dell'anno. Nel 2006 “La cena delle ceneri” riceve il premio come miglior spettacolo dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e nel 2007 il suo Studio su Medea è spettacolo dell’anno ai Premi Ubu. I suoi spettacoli sono stati ospitati da diversi teatri e Festival internazionali.

Nairobi. On the road. 6th January 2011









Nairobi. Trash. 6th January 2011




Kenya Masai Mara. January 2011